Rdc, il presidente dell’INPS Tridico: “Ha aiutato 5 milioni di poveri, senza resterebbe solo la Caritas”
“Sull’effettiva applicazione del Reddito di cittadinanza proviamo a fare un po’ di chiarezza con il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico”. Ecco l’intervista realizzata da Il Fatto Quotidiano e integralmente riproposta dalla Senatrice del Movimento Cinque Stelle, Dolores Bevilacqua, in un post pubblicato sul proprio account Facebook.
In tre anni quanta gente è stata raggiunta dalla misura e con quali costi?
“Da aprile 2019 a oggi hanno ricevuto il pagamento di almeno una mensilità 2,24 milioni di nuclei familiari per un totale di oltre 5 milioni di persone, con un importo medio Rdc-Pdc (reddito e pensione di cittadinanza) attualmente di circa 550 euro per nucleo e una spesa totale di circa 8 miliardi l’anno. Si è raggiunto un record di percettori nel picco della pandemia, nella prima parte del 2021, con 3,9 milioni di individui beneficiari di almeno una mensilità di Rdc. Oggi, rispetto al tempo della pandemia, l’economia va meglio. E a ottobre i percettori sono scesi a circa 2,45 milioni di persone, corrispondenti a 1,16 milioni di nuclei familiari. Circa il 20% dei percettori già lavorava, con guadagni minimi, fin dall’inizio della misura e non ha smesso di farlo, anzi ha aumentato la propria offerta sul mercato, come abbiamo rilevato nell’ultimo rapporto annuale Inps. Un dato sufficiente a rilevare che il reddito non incentiva a stare sul divano”.
Come è formata la platea dei beneficiari?
“Nella media del triennio il 65% dei percettori sono anziani, disabili e minori e persone che non hanno mai lavorato; il 20% sono appunto lavoratori poveri a cui integriamo il reddito; il 10%, 350 mila persone, ha trovato lavoro; un altro 5% ha il reddito e non lavora e potrebbe essere inserito nel mercato con politiche mirate. I dati mostrano che il programma del Rdc non è statico, anzi ha una mobilità molto sostenuta, con un tasso di sostituzione di circa il 50%: dall’inizio sono “entrate” 5 milioni di persone e ne sono “uscite” la metà. Le “permanenze” sono soprattutto di chi ha maggiore distanza dal mercato del lavoro: minori, anziani, disabili e soggetti che non presentano rapporti di lavoro negli ultimi anni o che non ne hanno mai avuti”.
Perché ancora oggi c’è discordanza tra la platea complessiva dei beneficiari e i “poveri assoluti”?
“Una prima considerazione va fatta sulle metodologie: l’Istat stima la soglia di povertà assoluta sulla base di un paniere di consumo per cui, se non lo si raggiunge, si è considerati poveri. Ma ci sono molti studi che dimostrano come ci sia poca correlazione tra “povertà di consumo” e la linea di povertà. Un secondo motivo è la scelta che ha fatto il decisore politico, giusta a mio parere, di individuare, come verifica per il livello di povertà, una soglia Isee, un parametro in cui non c’è solo il reddito ma anche il patrimonio, poi l’esclusione di soggetti colpevoli di alcuni reati e un criterio di residenza molto stringente di 10 anni. Ma, a parte quest’ultima distorsione sulla residenza, gli altri requisiti presenti in Isee li considero giusti, soprattutto nel nostro Paese che ha un livello di evasione fiscale superiore ai 100 miliardi annui. Durante la pandemia grazie a Rdc e Rem si sono raggiunti quasi 5 milioni di persone. Direi che questo è un buon risultato per una misura con l’obiettivo di contrastare la povertà”.
È vero che il Rdc ha fallito l’inserimento nel mondo del lavoro? È il punto più controverso.
“Non direi proprio. Ribadisco che il 20% dei percettori del Rdc lavora, sono working poor a cui viene integrato il reddito, percentuale aumentata rispetto al 2019, quando era del 18,5%. Inoltre, il profilo dei percettori nel 70% dei casi è costituito da persone con bassa istruzione, spesso difficili da allocare sul mercato, un mercato che per buona parte dell’ultimo triennio è stato bloccato da pandemia e crisi. Ciò premesso, la riattivazione sul mercato, la presa in carico e le politiche attive rimangono l’anello debole non solo del programma del Rdc, ma delle politiche del lavoro più in generale”.
I beneficiari che hanno sottoscritto un contratto di lavoro non sono quindi pochi?
“Sono circa 350 mila nel triennio coloro che hanno stipulato un contratto di lavoro, nella prevalenza dei casi a termine. Sicuramente una cosa non ha funzionato, ovvero l’accesso agli sgravi contributivi previsti dal programma per le assunzioni, utilizzato solo da poco più di mille aziende. Sia perché in questo periodo abbiamo solo denigrato la misura piuttosto che farla conoscere, sia perché le aziende non sono abituate a cercare manodopera attraverso i Centri per l’impiego, che non considerano efficienti. Bene allora il coinvolgimento delle agenzie di lavoro private. Ma ancor meglio sarebbe un partenariato tra queste e i Cpi per allocare i soggetti più fragili e i beneficiari di Rdc. Inoltre, i Comuni devono essere spinti a implementare la norma che prevede l’attivazione dei progetti di utilità pubblica per i percettori di Rdc che non lavorano. E si potrebbe prevedere la possibilità di cumulare, entro certi limiti, lavoro e Rdc o, alternativamente, ridurre del 50% e per un triennio l’aliquota marginale per i percettori che accettano un lavoro”.
Senza il reddito quali ammortizzatori sociali resterebbero in vigore?
“Per milioni di persone, senza il Rdc rimarrebbe solo la Caritas… Esiste la Naspi per chi perde il lavoro, per un massimo di 2 anni. Ma ricordiamoci sempre che il Rdc oggi per i due terzi viene dato a persone che non possono lavorare (anziani, disabili, minori), o non hanno mai lavorato, o non hanno una storia contributiva recente”.